Il sociologo Zygmunt Bauman se n’è andato. Le sue opere rimangono.
Ci sono persone che lasciano un vuoto ma, nel loro impegno, ci lasciano anche una grande eredità.
Quando ho la tentazione di pensare che non valga la pena affaticarsi per seminare qualcosa di sé, capisco anche che ognuno di noi può dare il proprio contributo, piccolo o grande che sia, importante per una persona, mille o milioni. Sarà sempre valsa la pena.
Sono rimasta piegata sui libri per quattro anni interi per diventare teologa e conseguire un Master in Dialogo interreligioso.
Leggere Bauman, come Bonhoeffer, era come avere una bussola.
Ricordo le lezioni di Paolo Naso (Chiesa e società)
e di Marco Dal Corso (Dialogo inevitabile).
Dal Corso: «Le persone possono essere definite come fuggitivi, transeunti che non si radicano in nessun luogo, “abitanti mobili di estraterritorialità”, dice Bauman. Rimangono tali anche se entrano a far parte di una comunità. E possono cambiare di comunità facilmente. La cultura dell’immagine o dell’apparente, si contrappone alla cultura del reale o dell’essere, e si caratterizza nell’assenza di sedimentazione di legami durevoli».
Già, i legami durevoli. Quanto ci ho creduto! Ci voglio credere ancora?
Mentre Naso racconta di un’Europa “credente” che va verso una religione patchwork, che mette insieme pezzi di una cosa e dell’altra, religiosità diverse, secondo il proprio gusto: estetico, grafico, cromatico… una religione à la carte… quella che Bauman definiva una religione liquida, non definita, sentimenti, vaghezze, imprecisioni… sincretica (prende pezzi diversi e li mette insieme: ecumenismo, dialogo religioso, secolarizzazione, pratiche orientali).
E io? In che direzione sto andando? Come mi muoverò in tutta questa imperfezione con quel desiderio di assoluto che mi attanaglia e che più cerco di afferrare e più mi scivola tra le mani?
Grandi, piccoli quesiti riaccesi da un corpo che si spegne e, nello spegnersi, divampa.